Nello spazio politico tardo contemporaneo alcune linee di tendenza generale riescono a emergere quale Zeitgeist di questa fase, o meglio quale ideologia di riferimento del gruppo dominante.
Nello spazio politico tardo contemporaneo (o post moderno), fase storica che prelude alla gestazione di un ordine mondiale globalizzato che oggi vediamo evolversi, e che ha avuto un’accelerazione con la caduta del muro di Berlino, alcune linee di tendenza generale riescono a emergere quale Zeitgeist di questa fase, o meglio quale ideologia di riferimento del gruppo dominante. È quella che molti hanno chiamato neo-liberismo, ma che per vari aspetti è un termine assai riduttivo e sotto un certo riguardo anche contrario ai principi dottrinali del liberalismo classico. Mentre a ben guardare in termini economici si è affermata la scuola monetarista dei Chicago Boys e dei rampanti colonizzatori della moneta-debito che ha favorito la liquidazione dello Welfare State in Europa, dall’altro lato le linee di tendenza generali mostrano una forte accelerazione verso un capitalismo autoritario (e tutt’altro che liberale) come quello delineato da Jack London ne Il Tallone di ferro, o una sorta di “socialismo” dei ricchi in cui è solo la proprietà privata dei piccoli ad essere messa a rischio o negata[1]. Il quadro generale che si delinea nel cercare di interpretare, attraverso i segni non certo di difficile interpretazione che diffonde, il pensiero di riferimento delle élite tecno-finanziarie è un corpus di dottrine che prevedono la moneta-debito, e la demonizzazione di ogni altra scuola economica che non sia neoclassica o miltoniana, la post-ideologizzazione della politica, lo svuotamento di ogni pensiero politico che non sia confacente alle agende globali, la distruzione delle tradizioni spirituali, delle identità locali, e di ogni resistenza “tradizionale” alla riprogrammazione dell’uomo e della società. L’uomo stesso del resto è “antiquato” (per usare un’espressione polemica del filosofo Günther Anders), qualcosa da superare verso il transumano: la nuova distopica versione dell’antropologia che teorizza il superamento dell’uomo naturale in una nuova struttura corporea integrata nell’artefatto tecnologico. Un uomo nuovo, che si avvicina al cyborg, con organi che sono anche pezzi di ricambio, protesi artificiali, mentre il suo pensiero diventerà un’estensione dell’IA, intelligenza artificiale. Il transumanesimo, è una dei principali costituenti del corpus di idea di coloro che hanno il potere e i mezzi per pianificare il futuro dell’umanità. Tale pensiero è – lo scriviamo da anni – una riformulazione nei nostri tempi del cosmismo, una forma di neospiritualismo che agitava il mondo proto-sovietico, e che univa temi positivisti, modernisti, fantascientifici, e ufologici, a una forma di neo-religiosità materialistica (fra le altre cose questa corrente del comunismo esoterico[2], replicava la ricerca tradizionale dell’immortalità in chiave tecnologica: l’imbalsamazione di Lenin e la sua tumulazione in una piramide tronca, è un esempio del capovolgimento controiniziatico di principi spirituali). In un certo senso l’eredità del cosmismo sovietico sembra rivivere nei sogni delle elite tecnocratiche e finanziarie capitalistiche, che oggi tornano ad esaltare questo sogno. Nel transumanesimo attuale, il centro di riferimento, per usare un concetto di Carl Schmitt, si è spostato in particolare dalla semplice tecnica a una specificazione: l’informatica.
Questo corpus di indirizzi postmoderni dell’età della globalizzazione sono stati avviati da centri di pensiero quali il Club di Roma (1968) ed altri. I vari “Club di Cos” (isola in cui nacque Ippocrate), con un indirizzo analogo, nello specifico in campo medico. La medicina infatti, non poteva mancare dall’orizzonte di questa riprogrammazione antropologica, essendo il suo dominio uno dei terreni di applicazione del transumanesimo. L’irruzione del collettivo (la politicizzazione delle masse) tipica del Novecento, l’industrializzazione o meglio il fordismo dei rapporti produttivi e sociali, l’avanzare del dominio della tecnica (τέχνη) come destino che si impone all’uomo (e che era per Heidegger una delle cifre del nichilismo moderno[3]), non potevano non travolgere anche l’arte medica, trasformando quella che era anzitutto arte, in un fatto industriale-meccanico, snaturandosi nel più generale dominio dello Stato novecentesco, con i suoi miti di mobilitazione di massa nella Sanità pubblica. Quando parliamo di “Stato” non ci riferiamo unicamente alle ideologie stataliste: tale collettivizzazione e meccanizzazione, sono stati in azione contemporaneamente anche negli Stati Uniti, dove agiva l’altra facies del totalitarismo tecnico di massa, quella privatistica del Complesso industriale-finanziario, che poi diventerà anche farmaceutico. Così fu una sorta di “colpo di Stato” accademico, voluto dal magnate Rockefeller, il fatidico rapporto Flexner (1910) a introdurre la standardizzazione nell’insegnamento accademico della Medicina, a far sparire dalle Università e scuole di medicina statunitensi, tutte le correnti di medicina naturale, omeopatica, eclettica, che nell’Ottocento avevano visto in America un vigoroso ed esemplare sviluppo. La standardizzazione era un passo forzato verso l’abolizione legale dell’individualità specifica nella pratica e nell’insegnamento, e soprattutto un misconoscimento anche gnoseologico, oltre che pratico, verso la pluralità delle fonti dottrinali.
Le tendenze in atto portavano da un lato all’omologazione culturale della medicina che diventava Una e unica, quella occidentale-scientifica, convenzionalmente identificata con la medicina stessa, contro la pluralità dei saperi medici etnici e tradizionali[4], dall’altra al completo inquadramento dell’uomo nelle ruote dentate della macchina sanitaria pubblica come sistema di controllo. Con la creazione del concetto di “salute pubblica” nasce anche un biopotere, come esercizio e intervento da parte del potere politico direttamente sulla sfera intima e vitale dell’essere umano. Tale fase comincia storicamente con la rivoluzione industriale e coincide con l’espansione del capitalismo. Il filosofo e storico della scienza, Michel Foucault (1926-1984), uno dei primi a problematizzare il passaggio a questa nuova dimensione, scriveva:
La biopolitica è apparsa come nuova pratica del Potere, il cui concetto fu introdotto nell’età classica. La vecchia concezione della morte avrebbe ceduto il posto ad un Potere il cui fine primo era l’amministrazione dei corpi e la gestione della vita. Attraverso la Biopolitica non si tratta più ora di governare gli individui, ma di controllare la collettività attraverso l’igiene, l’alimentazione, la sessualità, la natalità.
Nasce un potere pubblico (o pubblico-privato) che sempre più estende il suo controllo su ambiti che in passato ricadeva al di fuori della sfera politica, essendo eminentemente privati: la biopolitica diventa la forma di gestione e di controllo del corpo umano nella società industriale e post-industriale contemporanea: gestione dei processi della sessualità, riproduzione, guarigione e malattia, financo della più incoercibile delle realtà, la morte. Nessuno di questi aspetti sfugge alla meccanizzazione e standardizzazione del rapporto industriale, e alla burocratizzazione politica. Infatti:
Il capitalismo non ha potuto consolidarsi che a prezzo dell’inserimento controllato dei corpi nell’apparato di produzione, e grazie a un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici. […] Fu nientemeno che l’ingresso della vita nella storia – voglio dire l’ingresso dei fenomeni propri alla vita della specie umana nell’ordine del sapere e del potere – nel campo delle tecniche politiche. […] Nello spazio così acquisito, organizzandolo e allargandolo, procedimenti di potere e di sapere prendono in considerazione i processi della vita e iniziano a controllarli e a modificarli.
Questa nuova dimensione del potere non può non continuare a porre ancora oggi il problema di nuove tirannie, e alimentare dubbi bioetici, dato che l’ampliamento della tecnica biologica e genetica aumenta progressivamente gli spazi di manipolazione e intervento sul corpo degli individui, ben oltre quanto tecnicamente negli anni di Foucault. La riflessione sulla trasformazione della medicina in fatto politico e la uniformazione ai modelli sociali e produttivi della società di massa, con necessario snaturamento della sua funzione tradizionale (e quasi sacrale), è stata oggetto anche delle importanti riflessioni di Ivan Illich, uno dei filosofi più importanti nella corrente dell’anarchismo cristiano nel Novecento.
Illich nella sua opera Nemesi medica [5] denuncia quel modello che definisce “iatrogenesi”, per analogia con il termine medico che indica un danno causato dalla stessa pratica medica. Questo processo per Illich si articola su tre livelli: clinico, sociale e culturale. I primi due li conosciamo: diagnosi errate e scelte di politiche sanitarie fallimentari. Il terzo è più interessante: iatrogenesi culturale è la trasformazione della medicina da Arte in “scienza”, dove il medico non più guaritore, consigliere e testimone della sofferenza e guarigione, diventa freddo burocrate del protocollo della scienza di Stato. Una vera espropriazione culturale avviene verso l’esperienza della sofferenza e della morte, l’uomo viene illusoriamente privato della capacità di soffrire e di sopportare la propria realtà, di morire della propria morte. La concezione stessa di “salute pubblica” espropria il concetto di salute, malattia e guarigione della sua natura personale, individuale, addirittura intima. L’impegno sociale di fornire a tutti i cittadini una massa pressoché illimitata di prodotti del sistema medico rischia di distruggere le condizioni culturali necessarie perché la gente viva una vita di costante guarigione autonoma. La società dell’era attuale ha trasferito ai medici il diritto esclusivo di stabilire che cosa è malattia, chi è o può diventare malato e che cosa occorre fargli. Perfino la devianza è ormai arbitrariamente “legittima” e “riconosciuta” solo quando merita e in ultima analisi giustifica l’interpretazione ideologica dell’establishment medico-statale.
Infine osserviamo una cosa: durante le ultime generazioni il monopolio medico sulla cura della salute si è sviluppato senza freni usurpando la nostra libertà nei confronti del nostro corpo. Si pensi ad ultimo alla pretesa di imporre un obbligo vaccinale (sulla base di presunti interessi di salute collettiva). Non in fondo l’ultimo attacco del neo-collettivismo di Stato (o meglio dello Stato-interesse industriale) contro la sovranità dell’individuo, quella ultima e più decisiva: la sovranità sul proprio corpo?
Illich intravedeva addirittura i pericoli e la deriva irrazionalista di una legge marziale sanitaria:
Chi rivendica con successo il potere durante un’emergenza può sospendere e distruggere ogni valutazione razionale. L’insistenza del medico sulla propria esclusiva capacità di valutare e risolvere le singole crisi lo eleva simbolicamente al livello della Casa Bianca.[6]
Anche senza arrivare alle preoccupazioni estreme e alle mobilitazioni grottesche delle emergenze epidemiche dei “virus letali” a cui ci hanno preparato decenni di strategiche narrazioni cinematografiche, anche solo la gestione dell’ordinario regime terapeutico dell’apparato farmaceutico-industriale ha tratti leviatanici e inquietanti. Non meno illuminanti sono quindi le parole di Ernst Jünger nel suo Trattato del Ribelle:
Le fabbriche della salute, con medici assunti e mal retribuiti, le cui cure sono assoggettate al controllo burocratico, sono sospette: da un giorno all’altro – e non soltanto in caso di guerra – potrebbero assumere un volto inquietante. […]. Non è impossibile che proprio da tali schedari ordinati in modo esemplare – egli diceva – escano i documenti che serviranno a internarci, a castrarci o a liquidarci.
Di queste tendenze occorre prendere atto perché si possano poi rovesciarle. Quale soluzione additiamo alle nuove generazioni per sfuggire da questo Leviatano transumano medico-sanitario, che ha trovato una sua nuova e potenziata versione nell’Era digitale?
Il ritorno alla concezione Tradizionale della dimensione sociale dell’uomo, per quanto declinata nel contesto contemporaneo. La tradizione filosofica del diritto naturale può essere la stella polare, per un nuovo umanesimo contro i “moloch” delle aspiranti dittature bio-digitali. Guardiamo alla tradizione giusnaturalista: Il giusnaturalismo, di Aristotele, Cicerone, San Tommaso, Grozio, è l’unica forma politologica e di filosofia del diritto che possa fare da contraltare sia al feticismo dei “diritti umani” sia alle derive transumaniste, ispirazione e difesa verso il fanatismo dei totalitarismi novecenteschi e contro le distopie contemporanee e future. È baluardo dell’individuo e delle comunità contro la preponderanza e gli abusi dello Stato, e fonte indispensabile per colmare le lacune del diritto positivo o compensarne gli eccessi. È una tradizione compatibile sia con le democrazie che con gli autoritarsmi temperati.
È l’unica dottrina politologica che sia autenticamente “tradizionale” perché riflette, meglio di ogni altra scuola di filosofia del diritto, il principio metafisico di Kosmos o Dharma, o “ordine cosmico”. Questa visione deve essere recuperata anche nella sfera della salute e della malattia, e nel rapporto dell’uomo con il proprio corpo.
Matteo Martini
[1] https://www.maurizioblondet.it/leconomia-circolare-secondo-beppe-grillo/
[2] https://axismundi.blog/2019/11/19/il-futurismo-esoterico-dei-cosmisti-russi/
[3] Per uno spunto di riflessione e approfondimento: Heidegger nemico della tecnica su L’intellettuale Dissidente https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/filosofia/heidegger-nemico-della-tecnica/
Heidegger: la questione della tecnologia
https://medium.com/@marioxmancini/heidegger-la-questione-della-tecnologia-11578c2132e2
[4] Tali sistemi medici tradizionali occidentali (medicina popolare naturopatia, omeopatia, osteopatia), orientali (ayurveda, medicina cinese, medicina tibetana, unani) o precolombiana (medicina sciamanica andina, amazzonica, tolteca) sono stati dapprima fortemente marginalizzati, se non addirittura denigrati o perseguitate, salvo essere parzialmente riabilitate in contesti meno dipendenti dal circuito tecno-scientifico occidentale. L’attuale Medicina Tradizionale Cinese è una ricostruzione maoista, dopo la dispersione dei medici tradizionali operata da Sun Yat-Sen: il regime cinese ne apprezzava pragmaticamente l’efficacia e il basso costo economico. L’India è un vasto mercato mondiale (un ottavo della popolazione mondiale) che, oltre alla sua tradizionale ayurveda, vede nell’omeopatia una delle principali risorse mediche e sanitarie. In Bolivia sono state riconosciute le medicine tradizionali a fianco della medicina convenzionale e la figura del curandero è stata regolamentata legalmente. Un curandero, Emilio Cusi, è diventato anche viceministro della Salute in Bolivia. Si tratta tuttavia di forme di pluralismo medico e culturale che sono piuttosto “eccezionali” rispetto allo spazio politico dominante.
[5] I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Edizioni Red
[6] Op.cit.