Nel Trittico del Giudizio Universale di Hans Memling è al di là di ogni dubbio vertiginosa, per forza icastica e nitore scultoreo, la sequenza dei corpi.

Nel Trittico del Giudizio Universale di Hans Memling è al di là di ogni dubbio vertiginosa, per forza icastica e nitore scultoreo, la sequenza dei corpi. Gli innu­merevoli nudi che po­polano quest’opera costituiscono a mio avviso la chiave di volta dell’arte memlinghia­na, felicemente in bilico fra Medioevo e Rina­scimento: uomini e donne dalle forme flessuose, dalle movenze composte ed eleganti, con un’espressione che non fati­ca a com­muovere lo spettatore, cogliendolo di sorpre­sa. E tutto questo, si noti, senza mai scivolare nel le­zioso o nel fatuo. Ogni nascita è garanzia di tenebre, magnete e idro­vora che ci at­tirano nel sepolcro. Eppure, come insegna il Vangelo, la vita umana non appartiene definitivamente alla polvere. Cristo, il nuovo Adamo, è risorto ed anche noi risorgeremo. In quel preciso istante si svolgerà il Giudi­zio Universale, presieduto dal Figlio di Dio. Nessun evento sarà mai stato così grandioso e terribile. Memling fa parte di quella schiera di anime belle che si concentrano sul primo aspetto e trascura­no il secondo. Perché un artista non è un teologo, e può e deve porre l’accento sulle visioni e sui pensieri che stimolano la sua fantasia. Si rischia quindi di frain­tendere la grandezza del nostro pittore (come di altri spiriti a lui affini) ove ci si dimentichi di tali pre­messe, lasciandosi andare, come è successo troppe volte, a facili accuse di sentimentalismo.

Occupiamoci dunque più da vicino del Trittico memlinghiano (Danzica, Muzeum Narodowe). Questo dono che il pittore fiammingo ha fat­to ad ogni amante dell’ar­te deriva la sua concezione generale dal maestoso Polittico di Beaune, eseguito da Rogier Van der Weyden fra il 1443 e il 1450. Così ad esempio l’aspetto ieratico di Cristo, della Vergine, degli aposto­li e dei beati che siedono o si inginocchiano sulle nubi, si mantiene in­tatto anche in Memling, come pure la scelta di inserire l’arcangelo Michele, incaricato della psicostasia (“pesatura delle anime”), pro­prio al di sotto dell’aureo globo su cui poggiano i piedi del Redentore, il quale siede a sua volta su un arcobaleno solido come il mar­mo e lucente come l’acciaio, con la veste color porpora che lascia scoperti i segni dei chiodi e la ferita al costato.

A fronte di queste cospicue analogie, si registrano numerose, significative differenze. A cominciare dalle dimensioni e dalla strut­tura dell’opera, un trittico che costituisce nel suo in­sieme un unico blocco virtuale, mentre Van der Weyden si servì per il suo colosso (largo quasi il doppio del Trittico di Memling) di ben nove scomparti, di cui sette con­secutivi formanti la ‘base’ del polittico, e altri due po­sti ai lati di quello centrale – il più alto di tutti –, domi­nato dal Giudice dei vivi e dei morti. Il terzo e il quin­to scomparto si trovano in tal modo parzial­mente so­vrastati dall’ottavo e dal nono, di modeste proporzio­ni.

Fondamentale è poi il diverso rapporto tra la sfera divina e quella terrena, nettamente a favore della pri­ma nel Giudizio weyde­niano ma non in quello di Memling, che lo riequilibra collocando la corte celeste all’altezza di Gesù Cristo e riservando altrettanto spa­zio alla valle di Giosafat. Ne consegue un notevole progresso in termini di armonia compositiva. Sotto l’arcobaleno, il cielo cupo e insondabile schiarisce quasi all’improvviso in prossimità dell’oriz­zonte, in una vertigine prospettica di tombe che si aprono e di cor­pi che ne fuoriescono. I diavoli, assenti dal polittico di Rogier, tra­scinano i reprobi con sé, o cercano di contendere agli angeli le ani­me dei salvati.

Nella tavola sinistra, una scala di cristallo permette agli amici di Cristo di raggiungere la Porta del Paradi­so: san Pietro in persona li accoglie uno per uno all’i­nizio della salita. La tavola destra rappre­senta la re­gione infernale, popolata da neri demoni zoomorfi e fla­gellata dal fuoco eterno che lambisce i dirupi e tor­tura i dannati. Questo trittico possiede davvero, come ha scritto Dirk De Vos nella sua dotta monografia (Memling, Rizzoli 1994), «l’impeto di un uragano e il fulgore di un’esplosione notturna», è un’epica del soprannaturale, intrisa di sogno e di silenzio. Monumen­talità e plasticità fanno a gara per imporsi allo spetta­tore. A differenza dell’arcangelo weydeniano, che indos­sava bianche vesti sacerdotali, san Michele è qui un nobile combattente, con un’armatura dorata come il globo che la sovrasta. L’uno e l’altra ri­flettono lo svol­gersi del sacro evento con un’esattezza che non teme paragoni. Dalle spalle arcangeliche scende un piviale di broc­cato rosso, le sue ali terminano con penne di pavone. Reggendo la bilancia con la mano sinistra, egli usa il pastorale per punzecchiare l’anima dannata, come per sospingerla verso l’imboccatura dell’inferno. Occorre altresì notare che lo sguardo dell’angelo non è rivolto all’osservatore del quadro, come in Van der Weyden, ma si abbas­sa per controllare che il dan­nato di turno venga trascinato via e il piatto sia libero in vista di una nuova pesatura. Questo efficacissi­mo sguardo verso il basso è in realtà frutto di uno dei ri­pensamenti del pittore, documentati in parte da Jan Białostocki sulla base di un esame ai raggi infrarossi (cfr. Les musées de Pologne, Centre de Recher­ches Primitifs Flamands 1966).

Dopo numerose attribuzioni erronee ad altri pittori, da Van Eyck e Wolgemut a Van der Goes, intorno alla metà dell’Ottocento il trittico memlinghiano verrà fi­nalmente riconosciuto al suo auto­re, sebbene non sia­no mancate successive titubanze e nuovi abba­gli, per­fino nel corso del XX secolo. È anche a dir poco curiosa la vicenda materiale del­l’opera, mai entrata in possesso del suo committente, il fiorentino Angelo Tani, che intendeva collocarla nel­la sua cappella di famiglia. Il 27 aprile 1473, una galea di cui era proprietario Tommaso Portinari, salpata da Bruges con il prezioso carico a bordo, stava navigando verso l’Inghilterra per farvi scalo e poi dirigersi in Ita­lia, quando venne catturata al largo di Gravelines dal corsaro Paul Benecke, alle di­pendenze della Lega Anseatica. Il trittico fu donato alla cattedrale di Danzica. Nonostante il caso diplomatico che ne seguì, esso si trova tuttora in quella città, dopo la parentesi napo­leonica che lo vide a Parigi per una decina d’anni. Il bottino dei corsari includeva inoltre una seconda pala d’altare, di cui fino ad oggi si sono perse le tracce. Fra gli interrogativi ancora aperti, uno riguarda proprio Tom­maso Portinari. Per quale ragione il volto della figura inginocchia­ta sul piatto destro della bilan­cia pesa-anime reca i suoi tratti? Si consideri che la testa di Portinari è stata aggiunta dal pittore ad opera or­mai conclusa, coprendo quella sottostante «con uno strato di asfalto e di bianco di piombo» (Giorgio T. Faggin, L’opera completa di Memling, Rizzoli 1969). Sappiamo che Tani fu agente della banca medicea a Londra e poi direttore della filiale di Bruges. Nel 1465, però, dopo abili ma­neggi, Portinari gli succedeva nel­l’incarico. Forse quest’ultimo ave­va partecipato alle spese, esigendo in seguito di figurare nell’ope­ra? Oppure si è trattato di un atto di adulazione da parte del com­mittente verso il suo nuovo superiore? Difficile a dirsi. È tuttavia consolante pensare che i ritratti di An­gelo Tani e di sua moglie Ca­terina, dipinti da Mem­ling sul retro degli sportelli del Giudizio Universale, continuano a vegliarlo notte e giorno, muti depositari di un lontano enigma.

Mario Marchisio