Nel viaggio iniziatico dell’Hypnerotomachia, la poderosa narrazione ermetica attribuita al domenicano Francesco Colonna, Polifilo deve superare più varchi e sottoporsi a più prove prima di giungere nel luogo in cui riceverà la sua consacrazione insieme alla donna amata.
Nel viaggio iniziatico dell’Hypnerotomachia, la poderosa narrazione ermetica attribuita al domenicano Francesco Colonna, Polifilo deve superare più varchi e sottoporsi a più prove prima di giungere nel luogo in cui riceverà la sua consacrazione insieme alla donna amata. Lo spazio in cui i due possono infine trovarsi al cospetto del fonte sacro di Venere non è però, come si potrebbe immaginare, un tempio, ma un edificio che si presenta come suo omologo sul piano delle funzioni che riveste a livello materiale e simbolico: un anfiteatro.
La «porticula», definita «mediana e regia» che Polifilo deve varcare per accedere al luogo sacro, da un lato replica l’angustia proverbiale del passaggio cui l’eroe deve sottoporsi per guadagnarsi un adito prezioso, dall’altro ricorda all’uomo saggio che tutte le porte “giuste” sono quelle che si trovano nel mezzo.
Una volta giunto al centro dell’anfiteatro, Polifilo si trova davanti ad un prodigio: il pavimento è infatti mirabilmente costituito da una lastra di ossidiana «di extrema nigritia e di duritudine indomabile», levigata a tal punto da fungere alla lettera da specchio «del profondo cielo». In principio l’uomo prova smarrimento, anzi teme di cadere nell’abisso che lo attira all’interno della voragine nera dello specchio, ma quest’ultimo, grazie alla sua «resistentia», gli restituisce tutti i suoi «sconvolti» e «atterriti spiriti». Il risultato è che adesso l’amante non teme più, come era accaduto lungo il viaggio, e riesce a guardare l’immagine riflessa.
La descrizione che segue mostra come dal pavimento di ossidiana, sorta di umbilicus mundi, si dipartano le gradinate che fanno da corona al centro del palco e del fonte di Venere e che sono emblematicamente trentasei, il numero che Plutarco attribuisce alla tetraktys pitagorica, simbolo della totalità del creato e perciò detta kosmos. A fare da contrappunto alla nerezza centrale è quindi l’iridescenza della tetracromia degli strumenti musicali e della policromia delle variegate specie floreali che non appassiscono, il tutto mentre ninfe danzanti si conformano alla generale «armonia» extra-mondana mai prima esperita da un Polifilo che viene dunque rapito nella sua estasi.
Che il sottotesto della descrizione dell’anfiteatro sia interpretabile in senso alchemico lo dimostra non solo la presenza di una pietra nera, in questo caso figurata dall’ossidiana, ma dal fatto che essa funga da specchio “celeste”, visto che è proprio il “cielo profondo” che essa paradossalmente riflette, cioè il suo diretto oppositum sia cromatico che spaziale.
Come afferma il teologo medievale Daniel de Morley, l’alchimia è la scienza degli specchi e delle immagini nel grande libro di Venere. Essa nel corso della storia è stata chiamata “arte” e “artisti” i suoi filosofi sperimentali, troppo spesso impropriamente definiti “alchimisti” nel senso deteriore di “folli” o “ciarlatani”.
Proprio nelle sue sperimentazioni sul campo l’arte regia ha conosciuto nei secoli l’utilizzo di specchi sia come strumenti distillatori – è quanto ad esempio ci spiega Athanasius Kircher – che come forni solari, registrando la sensibile differenza tra quanto accade nella riflessione speculare delle immagini sulle superfici periferiche e quanto invece accade nella grande superficie centrale dello specchio.
L’area centrale nerissima dell’anfiteatro dell’Hypnerotomachia è riconosciuta, a livello simbolico, come pregnante sostituto figurale della “terra”. Lungi dall’essere un attributo cromatico di segno negativo, il nero della pietra incarna infatti l’idea proto-chimica e poi drasticamente banalizzata di “fertilità”: una funzione che i nostri antichi progenitori conoscevano come responsabile di far diventare il poco “molto” su tutti i piani materiali e immateriali dell’esistenza. A suggerire una simile lettura sono alcuni dati espliciti nel testo che ci riportano alla catena analogica implicita su cui gli antichi hanno costruito il grande sistema semantico proto-scientifico in cui è da collocare l’alchimia.
La durezza della pietra ossidiana viene infatti chiosata dal Colonna con un aggettivo di grande valenza simbolica: «indomabile» e non può non richiamare alla mente il suo corrispettivo greco che è adamas o adamante. Questo è definito da Platone come il “nodo dell’oro”, una sostanza nera e durissima che il filosofo illustra come il prodotto del filtraggio del metallo aureo attraverso la pietra e che quindi sembra configurarsi, sul piano simbolico, come una sorta di “addensamento” della luce aurea. La pietra nera, secondo il Timeo, parrebbe quindi innanzitutto l’esito di un processo fisico cui è sottoposto l’oro.
Ora, il riferimento platonico al metallo aureo in quanto “nodo” ci riporta all’idea della riflessione speculare. Un nodo è infatti il glifo egizio che tra i suoi significati ha quello di “specchio” ed è costituito da un ideogramma volto a indicare, tra l’altro, come l’intersezione tra un cerchio ed una croce che lo sorregge – quale appunto è l’antica foggia degli specchi oltre che il simbolo di Venere – venisse percepita dagli antichi quale luogo deputato all’incontro del mondo visibile con quello invisibile. Il nodo è inoltre simbolicamente contiguo all’occhio, la cui nera pupilla centrale, coronata dall’iride – come l’ossidiana lo è dalla policromia musico-floreale – attira la luce per ribaltarla e sintetizzare l’immagine nell’atto visivo che non a caso ancora oggi designiamo con il termine “fuoco”.
Se allineiamo le figure suggerite dal pavimento dell’anfiteatro, la pietra nera, il nodo, lo specchio e l’occhio, sembrerebbe allora che ciò che accade implicitamente al centro dell’anfiteatro di Venere sia da intendere come la grande “attrazione” e “riflessione” della luce. Il pavimento di pietra nera pare fungere infatti da occhio e questo, a sua volta, per via dell’analogia tra le linee del fuoco visivo e i raggi del sole, agisce simbolicamente, e non solo, come forno solare. La pietra prima “attira” gli “spiriti” smarriti dell’eroe che teme di sprofondare nell’abisso, come lo specchio fa con la luce del sole, ma poi, grazie alla sua resistenza adamantina, li riflette rovesciandoli e restituendoli nella chiarezza dell’immagine “netta” proprio come fa un occhio che prima accoglie le linee visive nella pupilla e poi le rovescia producendo l’immagine, o come fa lo specchio che restituisce il fuoco della luce solare, moltiplicandone però la potenza.
Ancora nella seconda metà del Seicento Nicolas Lefebvre nel suo Traité de la chymie spiega con terminologia pre-scientifica ciò che accade nel forno solare realizzato proprio mediante uno specchio. Esso, dice lo scienziato dell’epoca, è in grado di riflettere prodigiosamente un «feu magique», un “fuoco magico” diverso da tutti gli altri che sono “distruttivi”, poiché esso non dissipa la luce del sole, ma di essa è “moltiplicativo” in quanto, dopo averla attirata, ne amplifica la potenza. In tal modo, dice Lefebvre, il fuoco “celeste” della luce solare riflessa dallo specchio produce la calcinazione dell’antimonio e, liberandolo dallo zolfo e dal mercurio impuri, prodigiosamente non ne diminuisce ma ne aumenta il peso. Dal poco il molto.
Il centro dell’anfiteatro di Polifilo, veicolo di musiche e di danze extra-mondane, è allora probabilmente deputato a far accadere quanto suggeriscono i trattati ermetici. Secondo questi ultimi, l’uomo non è fatto solo di “ragione” e, se esistono degli “occhi” che sono diretti alla comprensione delle immagini divine, essi prima di tutto si trovano nel “cuore” (testualmente: τοῖς τῆς καρδίας ὀφθαλμοῖς).
Contemplando per il loro tramite le immagini di ciò che l’uomo percepisce come sacro, queste riescono ad “attirarlo” verso l’alto. Possono farlo però solo attraverso una forma di sguardo diversa dalle altre e che non coincide con il “fuoco” fisico del vedere, o con il fuoco “distruttivo” evocato in senso chimico da Lefebvre, ma con il “fuoco sacro” del “contemplare”: la théa. Da essa in tempi lontanissimi il teatro.
Non stupirà allora che proprio nella chiusa del Faust, il cui incipit è un misterioso Prologo teatrale, lo scrittore e filosofo della natura J.W. Goethe invochi quello che egli chiama Ewig-weibliche, l’Eterno elemento femminile che gli antichi identificavano con divinità vergini ma genitrici come Venere. Esso, attraverso e al di là delle molteplici figure in cui il creato si esibisce nel grande palco dell’esistenza, rappresenta l’immagine essenziale che da tempi immemorabili “attira” l’essere umano verso l’alto, non diversamente da quanto fa la Beatrice di Dante nel ruolo di “Pietra” che il poeta le affida.
Ecco perché il fonte di Venere dell’Hypnerotomachia si trova in un anfiteatro e non in un tempio. Perché l’arte che oggi troppo spesso definiamo intrattenimento o evasione, in un tempo assai remoto è stata la via che il Sacro ha scelto per richiamare a sé l’uomo restituendogli la propria Immagine.
Nella Coletta
Bibliografia
Ariani M., Gabriele M., Hypnerotomachia Poliphili, 2 voll., Adelphi, Milano 2010.
Goethe J.W., Faust, a cura di F. Fortini, Mondadori, Milano 2020.
Hutin S., La vita quotidiana degli alchimisti nel Medioevo, Rizzoli, Milano 2018.
Kircher A., Ars magna lucis et umbrae, ex Typographia Grignani, Roma 1646.
Lefevbre N., Traité de la chymie, Jean d’Houry, Paris 1674.
Platone, Timeo. Testo greco a fronte, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000.
Schiavone V. (a cura di), Corpus Hermeticum, Bur, Milano 2001.
Zolla E., Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Marsilio, Venezia 2017.